Il CES di Las Vegas del 2009 era stato un successo per Palm. La critica aveva entusiasticamente presentato al pubblico il nuovo webOS, successore di Palm OS, come “una grande vittoria di Palm”. E non sarebbe potuto essere altrimenti: gli ingegneri dell’azienda avevano continuato ossessivamente a lavorare a webOS, preparandosi all’evento “come se fosse stato un Apple Event”, già allora sinonimo di perfezionismo scenico.
Una fatica ben ripagata. I commentatori, inviati dai principali quotidiani e riviste di tecnologia a testare con mano il nuovo webOS e il telefono sul quale sarebbe poi stato commercializzato – il Palm Pre – ne narrarono la fluidità di movimenti e la velocità di elaborazione dei processi, e le critiche che vennero allegate a questo effluvio di complimenti si concentrarono su aspetti più commerciali o tecnici. Come la decisione di distribuire Palm Pre sotto le insegne del piccolo operatore Sprint (ma Palm avrebbe voluto che se ne occupasse il grande Verizon, che aveva inizialmente rifiutato), il che avrebbe limitato la disponibilità del modello nei negozi; oppure il vago riferimento a “metà del 2009” fornito a chi domandava la data di uscita di Palm Pre.
Ma, sotto la polvere d’oro, la ruggine restava. Qualcuno se ne era accorto già durante il CES, dichiarando che “il re è nudo”, ossia che quello che i critici tenevano tra le mani all’interno del Pre non era altro che una demo che permetteva di capire ben poco delle reali potenzialità – o, meglio: del reale stato di sviluppo – di webOS.
All’interno di Palm, tutti sapevano qual era il reale stato delle cose: webOS 1.0 era il risultato di una fusione malriuscita tra Luna e Prima, tenuti insieme l’uno all’altro con del fil di ferro che sarebbe saltato via alla prima esplorazione approfondita del sistema operativo. Per questo Palm decise di non inviare dispositivi di prova prima del lancio ufficiale – cosa che insospettì più d’uno – e si arrischiò a dire ai rappresentanti di Sprint, i quali avevano già avuto modo di vedere una precedente demo di Prima Nova, che quello che tenevano tra le mani era solo un “restyling” dello stesso SO. Fortunatamente, ci credettero.
WEBOS, NOME IN CODICE “PESCE ROSSO”
Sembra il nome di un brutto film di spionaggio degli anni ‘70, ma è tutto vero. Arrivarci a parlarne, però, sarà tutta un’altra storia.
Come già detto, la prima release di webOS si qualificava più come una versione Beta bisognosa di forti aggiornamenti: nel corso degli ultimi mesi del 2009 ne giunsero ben sei, tutti miranti a bucare le falle prodotte dall’apertura delle maglie che tenevano cuciti assieme Prima e Luna.
Le speranze ora si concentravano su webOS 2.0, “Blowfish” (“Pesce rosso”). Palm aveva curiosamente deciso di assegnare due specifiche famiglie di nomi in codice alle versioni del suo sistema operativo: tipologie di alcolici per le Beta, nomi di pesce per le release ufficiali. Se dunque webOS 1.0 venne chiamato prima “Assenzio” e poi “Alalonga” – una variante del tonno – webOS 2.0 venne denominato “Pesce rosso” – blowfish in inglese. Si trattava della versione che gli ingegneri di Duarte avrebbero voluto rilasciare sin dall’inizio: un sistema operativo de-mercerificato, privo delle sue parti di codice Java che rallentavano le operazioni e lo rendevano ben poco piacevole da usare.
Sfortunatamente, l’impegno profuso nella nuova versione di webOS non venne sufficientemente ricambiato dai dati di vendita dei modelli nei quali venne commercializzato: i nuovi Pre Plus e Pixi Plus non si guadagnarono l’affetto del pubblico, complice il [criminale, ndr] trattamento riservato a Palm dal gestore telefonico Verizon. Dopo aver infatti rimpiazzato Sprint nella filiera di distribuzione dei dispositivi Palm – che avrebbe potuto avere sin dall’inizio – Verizon promise una ricca campagna pubblicitaria e il pieno appoggio alla serie Pre Plus, per poi rifiutarsi di spedire gran parte degli smartphone e produrre spot [terrificanti, ndr] per l’immagine di Palm, che assegnavano al Pre Plus la nomea di “smartphone per donne”. Successivamente, i più maligni avrebbero poi detto che l’appoggio a Palm fu per Verizon solo strumentale, nell’ottica di strappare a Motorola e Google condizioni più vantaggiose per la commercializzazione del nuovo smartphone Android, il Motorola Droid. Che diventerà il successo del 2009.
Alla fine, con perdite che si contavano nell’ordine dei milioni di dollari, a Palm non rimaneva altra strada che vendersi al migliore offerente. Le proposte non mancavano, naturalmente: il know-how degli ingegneri Palm, che avevano mancato di strategia (e fortuna) ma non di cervello, faceva gola a molti e tanti personaggi provenienti dalla crema delle aziende della Silicon Valley si affollarono davanti ai cancelli dell’azienda. Tutto avvenne nel massimo segreto: nessuno, tranne i più alti dirigenti, era autorizzato a sapere chi sarebbe stato il prossimo candidato all’acquisizione. Duarte e il suo team finiva così a spiegare la propria tecnologia a persone che non conosceva, di aziende di cui non poteva sapere il nome né il mercato in cui operavano. A volte, raccontava, andavano per tentativi, indovinando “oh, questi devono essere quelli di Samsung”.
Alla fine, venne HP.
PERCHÈ IL PALM PRE E WEBOS HANNO FALLITO?
Come funzionava webOS? A confronto con oggi, il sistema operativo di Palm potrebbe sembrare antidiluviano – per esempio, mancava completamente l’idea di un “app store”. Nel 2009, quando webOS venne alla luce, il suo “App Catalog” aveva solamente 30 applicazioni al suo interno. A confronto l’App Store, quando venne presentato nel luglio del 2008, possedeva 800 applicazioni che in due settimane avevano collezionato dieci milioni di download; entro il gennaio successivo le app erano cresciute a 15.000, e i download sfioravano il miliardo. L’App Catalog non arriverà mai a superare le 10.000 unità (ufficiali), numero raggiunto solamente due anni dopo il lancio.
Naturalmente non fu soltanto la scarsa disponibilità di applicazioni a rovinare l’esperienza utente per gli utilizzatori di webOS – ma sicuramente contribuì ad acuire il loro senso di esasperazione. Descrive molto bene questa situazione Jon Stokes su Ars Techica: nonostante una persona non scaricherà mai nella sua vita più di 1.000 app, tra 10mila e 100mila applicazioni (che l’App Store raggiunse un anno e mezzo dopo la sua nascita) non sono solo i numeri a fare la differenza.
C’è un fenomeno detto “della lunga coda”: tra quelle 90.000 app è possibile che ci saranno quelle suite di nicchia che convinceranno una fascia magari piccola, ma omogenea della potenziale clientela a virare su un sistema operativo (iOS) che un altro (webOS). Oppure molteplici alternative per una singola necessità – ad esempio: su Android, per scrivere delle note (una task semplicissima) sono disponibili tantissime app, da Google Keep a Notion. E una di queste può avere quella funzionalità particolare che ci convincerà a stazionare su una marca di smartphone piuttosto che su un’altra. Senza contare che Palm e webOS, a differenza di Google, non disporrà mai di una propria suite di servizi cloud: probabilmente per mancanza di fondi, ma anche di una buona dose di miopia da parte della dirigenza.
Ma, come detto, non si trattava di un problema solamente quantitativo. Anche gli stessi dispositivi Palm non brillavano per la qualità costruttiva: sempre Stokes segnala che persino il suo dispositivo di prova, quelli che le aziende inviano a quotidiani e riviste online perché ne effettuino una recensione, si ruppe poco dopo la pubblicazione dell’articolo (coincidenze?). L’hardware non sosteneva le necessità del software, e i freeze e i crash delle applicazioni – nonostante i miglioramenti da Nova Prima a Luna! – erano comunque più frequenti che altrove.

Al di là della campagna pubblicitaria disastrosa, che come abbiamo già detto non fu completamente responsabilità di Palm (anzi), il vero fallimento fu nella miopia di prospettive. Palm non seppe individuare il trend del futuro: la clientela preferiva dispositivi larghi ma sottili piuttosto che device piccoli ma spessi. Steve Jobs lo aveva capito, ed è per questo che i suoi iPhone divennero più snelli con il procedere delle release; i dirigenti Palm dimostrarono invece di possedere una fronte spessa tanto quanto i loro smartphone e continuarono ad insistere sull’equazione “piccolo e grosso = bello”, tanto che secondo Roger McNamee di Elevation Partners invece gli iPhone non avrebbero dovuto avere successo perché non entravano facilmente nelle tasche dei pantaloni.
LA CURA PEGGIORE DELLA MALATTIA
Alla fine, venne HP. L’azienda statunitense produttrice di chipset aveva un forte interesse per Palm e la sua posizione all’interno del mercato degli smartphone. Tuttavia, mancava di una chiara strategia che ne avrebbe dovuto definire l’esplosivo ritorno sulle scene dopo le deludenti performance commerciali e tecniche del Palm Pre e Pre Plus – e le conseguenze di tale mancanza non avrebbero tardato a manifestarsi.
Palm venne acquistata da HP per 1,2 miliardi di dollari nell’aprile del 2010. Tale acquisizione fu motivata non soltanto dalla crescita esponenziale del nuovo “mercato delle app”, evidente a tutti, ma anche dai collegamenti che HP possedeva nei confronti di Palm. L’Executive Vice-President della sezione Personal Systems Group, che all’interno di HP si occupava della gestione di un po’ tutti i prodotti, era Todd Bradley, ex-CEO di PalmOne sino al 2005. Quell’anno era stato costretto a lasciare la presidenza a causa di alcune scelte commercialmente poco felici – come il mantenimento di un’offerta superiore alla domanda, che aveva inevitabilmente portato PalmOne alla crisi – ed era stato adottato da HP.
Una figura famigliare per Palm, nonostante la poco allegra dipartita di allora, che rassicurava dipendenti e sviluppatori sul futuro dell’azienda ma soprattutto di webOS; a rasserenare ulteriormente il clima contribuì anche il CEO di HP, Mark Hurd, convinto che fossero necessari investimenti sostenuti affinché Palm vincesse la concorrenza di iOS e Android.

I primi tempi furono, per così dire, “sperimentali”. Mentre gli ingegneri di Palm si occupavano dello sviluppo di webOS 2.0 – la già citata versione “Blowfish” – presso HP si cercava di capire quale sarebbe stato l’investimento più fruttuoso di quel nuovo sistema operativo. Inizialmente, come molti si aspettavano, HP tentò di includere webOS all’interno di una vasta gamma di prodotti da ufficio, dai computer alle stampanti. Nessuno dei test però andò a buon fine: il porting di webOS su Windows non venne mai commercializzato, e la stessa fine fece l’adattamento di webOS su stampanti – in pratica, dissero alcune fonti interne, “si trattava di uno smartphone webOS graffettato su una stampante”. Come venderlo? Come presentarlo al pubblico, ricordando che allora l’Internet of Things poteva essere inteso solo come il nome di un brutto film di fantascienza?
Finalmente, HP trovò il segmento adatto: i tablet. Venne detto agli sviluppatori i webOS di concentrarsi sulla produzione di un tablet che avrebbe dovuto fare concorrenza all’iPad. Un’impresa difficile, visto il quasi-monopolio di Apple sul segmento di mercato, ma fattibile con il supporto dell’azienda. Sfortunatamente, la primavera del 2010 fu per Palm molto più simile ad un inverno: con lo sviluppo di webOS 3.0 “Dartfish” e del suo framework di nuova generazione in corso (chiamato “Enyo“) e la nuova commissione di HP, Matias Duarte scelse il momento peggiore per andarsene.
Colui che infatti era stato il padre di “Luna” e conseguentemente di webOS, lasciò HP nel maggio del 2010 per Google, portando le lancette dell’orologio produttivo di Palm indietro di mesi e privando il team di sviluppo di una guida. Poi fu il turno di Mark Hurd, costretto alle dimissioni dal board di finanziatori di HP – i quali non condividevano la filosofia “spendacciona” che basava il suo approccio al brand di Palm.
Al suo posto fu scelto un personaggio curioso, quasi bizzarro e ai limiti del grottesco il cui regno su HP, per quanto breve, lasciò sicuramente traccia.
APOTHEKER, IL DE-APOTECARIO
Un volto buffo con un nome decisamente strano. Léo Apotheker sembra infatti la denominazione adatta e quasi lapalissiana per un personaggio dell’epopea fantascientifica di Warhammer 40.000, più che per il dirigente di una delle più importanti società di tecnologia degli Stati Uniti. Nell’oscuro universo grimdark di Warhammer 40.000 infatti gli apotecari sono i soldati dell’esercito dei super-umani space marine deputati alla cura dei propri confratelli: nell’altrettanto dura realtà di Palm, invece, il ruolo di Apotheker sarà completamente opposto a quello di un un medico, e più vicino a quello di un boia.

Apotheker aveva una visione: trasformare HP nella nuova IBM. E chi conosce la storia personale di Steve Jobs, o ha letto la sua biografia, saprà bene che non c’era nemico più grande che IBM per il fondatore di Apple: in riferimento ad una società che come Palm si era vista assegnare il compito di competere proprio con Apple, la notizia dell’arrivo di Apotheker poté significare solamente o ottime notizie, o pessime prospettive. Ancora, com’era da tradizione nella storia di Palm, fu la seconda ipotesi a prendere forma, fin da subito.
Apotheker rifletteva squisitamente la visione degli investitori di HP: spendere poco e ottenere il massimo profitto. Per IBM era cosa facile, dato il business avviato nel mondo dei software; è chiaro però che il medesimo approccio non poteva essere tradotto in una compagnia che, oltre al software (webOS 3.0) era costretta per forza di cose a produrre anche l’hardware.
E infatti, le cose volsero al peggio per Palm: la produzione del primo tablet di Palm-HP, il TouchPad, formalmente iniziata nel luglio 2010 ma effettivamente avviata nel settembre successivo (dopo il rilascio di Blowfish), fu difficoltosa per Palm. Un primo prototipo era già pronto a novembre, ma non era niente di più che “un mucchio di pezzi di ricambio scartati da Apple”. Per dirla con le parole degli ingegneri che vi lavorarono, HP costrinse Palm a cercare nel bidone della spazzatura di Apple: l’azienda di Cupertino sembrava accaparrarsi per prima ogni componente necessario per la produzione del TouchPad, dalle fotocamere agli schermi, bruciando il terreno attorno a Palm. Per HP le soluzioni erano evidentemente due: costruire una fabbrica nuova di zecca che provvedesse a rifornire i magazzini di Palm, o costringere i nuovi arrivati ad arrabattarsi con quanto avevano a disposizione. Per Apotheker non ci fu nemmeno bisogno di scegliere.
Nel febbraio 2011 il TouchPad venne presentato al pubblico insieme a webOS 3.0; l’effettiva messa in commercio, che secondo la dirigenza avrebbe dovuto avere luogo il mese successivo, fu spostato per decisione di Rubinstein a giugno, consapevole che il sistema operativo non era in grado di fare molto di più di quanto mostrato dal product director Sachin Kansal sul palco dell’evento di febbraio. Ma anche a giugno il TouchPad non era pronto per sfondare il mercato: al di là dei componenti di seconda scelta, lo stesso sistema operativo era pieno di bug e attendere una release successiva, come la webOS 3.0.1, sarebbe stata una scelta molto più igenica per la già traballante reputazione del brand.
Prevedibilmente, i dati di vendita registrati dal TouchPad furono sconfortanti: sicuramente non aiutò il prezzo di 199$, pari a quello del suo diretto – e decisamente più performante – concorrente, lo sfavillante iPad 2. Le immagini delle colonne di TouchPad chiusi nelle scatole all’interno dei supermercati, invenduti, divennero la perfetta rappresentazione di un incubo annunciato per tutta Palm, ed ebbe l’effetto di spingere alla frustrazione l’intero team che vedeva il proprio duro lavoro sprecato a causa di una pessima condotta manageriale. Persino la catena Walmart arrivò a interrompere gli ordini di nuovi TouchPad.
Tuttavia le conseguenze del flop, inizialmente, non si fecero troppo sentire. Rubinstein fu sostituito da Stephen DeWitt in qualità di responsabile del progetto webOS, ma si trattava ancora di un danno contenibile. La vera deflagrazione, che colse chiunque di sorpresa all’interno di Palm, avvenne nell’agosto dello stesso anno: Apotheker aveva infatti colto l’occasione per dismettere una linea di produzione che considerava completamente inutile. Tutti i progetti legati a webOS vennero dunque soppressi: il tablet TouchPad GO e i due smartphone Palm Pre 3 e Veer, e persino il porting di webOS su Windows che aveva già raggiunto una versione Beta chiamata “Stingray” (“Razza” in italiano). I rimanenti TouchPad vennero venduti a 99$, un prezzo che per molti fu “uno scherzo”.
Wait, did I just say I had a plan? Because I never did. I’m quite the trickster!
— Leo Apotheker (@Apothekerrazy) 20 agosto 2011
Apotheker divenne il bersaglio di ogni invettiva: venne descritto come “una persona tossica”, “il peggio possibile”. Sicuramente il CEO di HP non aveva mai tentato di accattivarsi i propri dipendenti presso Palm – alcuni sostengono che, durante il suo anno di presidenza, fece visita al campus di Palm una sola volta, e nessuno seppe mai veramente dire se avesse mai tentato di giocare un ruolo decisivo nella corsa di Palm al mercato dei tablet. Qualcuno arrivò persino a creare un suo account Twitter-parodia.
Sicuramente però la sua scelta di dismettere così velocemente webOS non fu vista di buon occhio da molti, compresi alcuni dei suoi ex-sostenitori: così, come era venuto, Apotheker se ne era andato e già nel settembre 2011 era stato sotituito dall’ex-CEO di eBay, Meg Whittman.
RELEASE THE CODE
Dopo l’esperienza con Apotheker, il rapporto che nacque immediatamente tra Whitman e Palm ebbe lo stesso effetto di una boccata d’aria fresca per il team di sviluppo. Contrariamente al suo predecessore, la nuova CEO si propose loro da pari a pari, senza arie di sufficienza o complessi di superiorità che avevano caratterizzato i rapporti dell’ultimo anno con la dirigenza.
“[Whitman] era una persona così ragionevole… a differenza di Todd, DeWitt o persino Jon [Rubinstein], lei non si presentava di punto in bianco e diceva ‘dovreste sentirvi onorati a lavorare per la compagnia che Bill [Hewlett] e Dave [Packard] hanno fondato’. […] Lei era più ‘devo convincere il board a finanziarvi’“
Sfortunatamente però, nonostante la buona volontà c’era davvero poco che Whitman potesse fare con quanto rimaneva di webOS. Come successe a molti altri sistemi operativi morti prematuramente (uno fra tutti, Symbian: ma ne parleremo in un’altra puntata di MuseOS), anche webOS venne affidato alle amorevoli cure di una fondazione che ne avrebbe gestito l’amministrazione del suo codice di sviluppo, reso nel frattempo open-source. Se da una parte l’avvio della fondazione Open webOS (annunciato a gennaio 2012 e previsto per il settembre dello stesso anno) fu forse l’unica mossa che Whitman potesse compiere per assicurare la sopravvivenza e persino un’eredità a webOS, dall’altra contribuì ad allontanare ciò che rimaneva della “vecchia” Palm.
L’apertura della fondazione Open webOS venne infatti accolto come un segnale di “sciogliete le righe“: due giorni dopo l’annuncio, difatti, Rubinstein diede le dimissioni. Che non colsero di sorpresa nessuno.
“Quello che abbiamo fatto in quattro anni e mezzo è stato fantastico. E non penso che le persone lo capiscano veramente – tutto quello che abbiamo fatto in questo lasso di tempo è stato fantastico.“
Jon Rubinstein a Joshua Topolski per Engadget
Gran parte del team di webOS era infatti stato messo al corrente già nel dicembre 2011 del cammino che il sistema operativo avrebbe intrapreso, e Rubinstein aveva già provveduto a posizionare i suoi componenti lontano da quei dirigenti che, come DeWitt, ancora sostenevano Apotheker e che avrebbero potuto danneggiare ulteriormente il progetto. Salvato il salvabile, Rubinstein se ne era andato. Con lui sarebbero partite quasi 200 persone, per la maggior parte nel maggio 2012 e per la maggior parte verso Google. Altri, come Ari Jaaksi (ex-dirigente del sistema operativo di Nokia MeeGo, anche lui prossimo protagonista di MuseOS), sarebbero entrati direttamente in HP; altri ancora come Andy Grignon, avrebbero avviato la propria startup.
Come previsto, il progetto Open webOS non sopravvisse a lungo dalla partenza dell’ultimo superstite della vecchia guardia di Palm: quando Matt McNulty, responsabile del framework Enyo e dello sviluppo di webOS 3.0 lasciò l’azienda, molti si chiesero: “cosa diavolo ci rimane ora?“.
Poco o nulla, evidentemente: già nel 2013 infatti HP cedeva la parte software di webOS a LG, che diventava così proprietaria del team di sviluppo del sistema operativo, del suo codice e di tutto quanto fosse ad collegato. Ciò che invece rimaneva di Palm, dei suoi brevetti e dei suoi servizi cloud – come l’App Catalog – sarà invece smantellato e venduto a Qualcomm nel 2014.
Sorprendentemente, fu LG a infondere a webOS una seconda vita. La transizione al kernel di Linux sfruttato già da Android conferì a webOS una maggiore flessibilità, così da consentirne la traduzione in numerosi porting su elettrodomestici, smart TV e persino in uno smartwatch.
Con l’apertura poi del progetto webOS Open Source Edition nel 2018, anche gli sviluppatori affezionati al vecchio sistema operativo di Palm hanno potuto dare il loro contributo – che si era già però materializzato già nel 2014 con Affogato, la prima release di LuneOS. Nato dalle ceneri del fu Open webOS, LuneOS si dichiara già dal nome erede del sistema operativo originale di Palm, e ha continuato a rilasciare aggiornamenti (ognuno dei quali chiamato con una tonalità diversa di caffé), l’ultimo dei quali uscito proprio nel novembre di quest’anno. Parliamo di Doppio, ad oggi utilizzabile su diversi smartphone Android e sistemi webOS LG – vi lasciamo al comunicato ufficiale per maggiori dettagli in merito.
Dopo tante sofferenze, forse la migliore testimonianza della flessibilità, ma soprattutto delle potenzialità che webOS avrebbe potuto dimostrare con una migliore gestione manageriale.
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