Perché a nessuno piace Telegram con il web 3.0
Nei giorni scorsi, il fondatore di Telegram, Pavel Durov, ha annunciato una “svolta web 3.0” per la sua applicazione. Con l’uso del termine “web 3.0” Durov intende dire che Telegram assumerà i connotati di una piattaforma “decentralizzata”. Non completamente, però: i dettagli finora diffusi riguardano principalmente le transazioni economiche che coinvolgeranno l’utenza, che potrà reclamare la proprietà di elementi della piattaforma sviluppando un mercato secondario che coinvolgerà username, canali, adesivi e altro ancora. D’altronde, nel suo messaggio di annuncio, Durov ha detto chiaramente che intende aggiungere «un pochino di web 3.0» su Telegram. Un pochino, non tutto.
(prima di partire con i contenuti dell’articolo, vi ricordo che potete venirci a trovare sul nostro canale Telegram, @appelmoladg, e dire la vostra sul nostro gruppo @appelmeggiando. Tra l’altro sono sempre attivo e presente sul gruppo, e vi risponderò se avrete domande, dubbi o risposte ai contenuti di questo editoriale)
Sempre all’interno del suo messaggio, Durov ha esplicitamente menzionato l’integrazione della TON su Telegram quale strada per portare l’applicazione nel web 3.0. La TON, o Telegram-Open-Network, è una blockchain sviluppata nel 2018 principalmente da Nikolaj Durov, fratello di Pavel e co-fondatore della piattaforma, nonché autore dell’algoritmo di crittografia di Telegram (MTProto).
La TON, secondo le intenzioni del team di Telegram, avrebbe dovuto fungere da trampolino di lancio per Gram, la criptovaluta di Telegram, e sostanzialmente per una rivoluzione in senso “web 3.0” dell’intera applicazione. I piani vennero poi mandati in fumo dalla Security & Exchanges Commission americana, che ritenne che il team di Telegram stesse cercando di aggirare le regolamentazioni statunitensi in materia di criptovalute e, visto che non era possibile provare che sarebbe stato impossibile per un investitore nordamericano partecipare al finanziamento della piattaforma, Telegram fu costretto a smantellare tutto. Si tratta di una storia bella strana, che potete recuperare QUI in una nostra ricostruzione dell’epoca.

Non tutto, in realtà. Il “progetto TON” venne messo a disposizione dell’utenza, che fece nascere numerosi progetti spuri che, nell’intenzione della dirigenza dell’app, avrebbero dovuto recuperarne l’eredità. Tra tutti, una criptovaluta in particolare ha raccolto un successo straordinario: Toncoin. Nel giro di breve tempo Toncoin ha saputo raccogliere attorno a sé vaste comunità di supporter, localizzati un po’ in tutto il mondo: il canale principale della valuta conta più di mezzo milione di utenti, ma le varie comunità locali raggiungono comunque cifre considerevoli – il canale russo ha 400.000 membri, quello in lingua spagnola 150.000, e così via.
Un successo appunto straordinario; secondo alcuni, persino troppo. C’è chi dice che Telegram avrebbe finanziato Toncoin perché portasse avanti la TON, visto che ufficialmente l’app era stata costretta a smantellarla, e presenta come prova i “regali” che la valuta ha ricevuto dall’applicazione – come i web bot, che sicuramente hanno aiutato molto il bot ufficiale di Toncoin, @wallet. Trovate QUI tutta la storia, se volete approfondire.
Le accuse non sono campate per aria, e conoscendo il modus operandi di Telegram (sempre al confine con la legalità, cercando di forzare le regolamentazioni a proprio favore) è realistico pensare che Toncoin abbia quantomeno ricevuto un trattamento di favore da parte dell’applicazione. Basti pensare che il messaggio di Durov nasce proprio con l’elogio del sistema di vendita di username istituito da Toncoin, auspicando di poterne creare uno simile all’interno di Telegram, con gli username stessi dell’applicazione.
Ecco.
Questo passaggio è stato ciò che ha provocato uno tsunami di reazioni indignate da parte dell’intera comunità di creators di Telegram. Non solo semplici utenti, ma anche canali che nessuno avrebbe pensato capaci di esprimere un dissenso contro la linea ufficiale di Telegram, come @tgbeta (che da anni si occupa di diffondere le versioni beta dell’applicazione, gratuitamente e a grande vantaggio della comunità) o @humblebundle (non ufficiale), hanno invitato i propri utenti a lasciare una reazione negativa al messaggio. Che difatti nel giro di poche ore aveva raggiunto oltre 30.000 reactions negative (pollice verso), contro meno di diecimila reactions positive. L’impatto è stato tale che il canale di Durov ha successivamente disabilitato le reactions, che ora infatti non sono più visibili.

La notizia è poi rimbalzata un po’ ovunque, senza però che l’accoglienza da parte degli utenti fosse differente. Persino sul canale ufficiale di @toncoin, le reazioni (ancora abilitate) al messaggio di Durov, inoltrato nel canale, sono in larga parte di sdegno e rabbia. I motivi di una simile, spontanea indignazione collettiva possono non essere completamente chiari, se non si considera ciò che è successo nei giorni precedenti.
Il 19 agosto migliaia di username legati a canali e bot pubblici sono stati revocati nel giro di poche ore. Gli username sono stati requisiti e resi inaccessibili, e tali rimarranno per almeno 6/12 mesi. L’esproprio non è stato ufficialmente né motivato né annunciato, né prima né dopo la sua attuazione. La versione ufficiosa vede in quest’atto un “repulisti”, finalizzato a rimettere a disposizione dell’utenza molti nomi utente rimasti parcheggiati all’interno di canali inattivi – che sembrano essere gli unici colpiti dal provvedimento. Nelle FAQ dell’applicazione si legge infatti che «ci riserviamo il diritto di revocare gli username assegnati a bot e canali non utilizzati, così come gli username che vengono chiaramente occupati».
L’atto, che di per sé aveva suscitato molte polemiche (trovate QUI un approfondimento dedicato), ha portato l’utenza di Telegram al punto di ebollizione una volta analizzato alla luce dell’annuncio di Durov.
Si tratta di un approccio sostanzialmente inedito all’identità social. Su tutte le piattaforme è prassi comune che l’utente possa avocare a sé un username, che diventerà dunque l’espressione della propria identità su quella piattaforma, e magari anche su altre. Qualora a quell’username corrisponda un brand, il suo proprietario avrà persino il diritto di reclamarlo qualora sia in possesso di altri utenti, poiché lo rappresenta nella sfera del web e dei social – e ciò avviene in forma del tutto gratuita. Durov sovverte questo principio, suggerendo l’applicazione delle stesse meccaniche che oggi esistono per i domini internet – e ciò spaventa i creatori di contenuti e più in generale l’utenza di Telegram. L’idea proposta da Durov atterrisce infatti chi, dopo gli eventi dei giorni scorsi, teme che la propria identità online possa essere messa all’asta e acquistata da un soggetto terzo o ignoto.
Ma i problemi sono più di uno. L’idea di una piattaforma profondamente integrata nella blockchain secondo i dettami del web 3.0, suona male a molti utenti. Non sarebbe sbagliato dire che in parte si tratti di un preconcetto. L’obbiettivo del web 3.0 è infatti il rinnovamento radicale della rete, cosicché diventi, grazie all’uso di tecnologie di nuova generazione (blockchain, smart contract…) un web finalmente anonimo e democratico. Un’ideale che, di fondo, è perfettamente in linea con Telegram e la sua filosofia, nonché quella del suo fondatore (non sempre le due cose coincidono).
Sfortunatamente, NFT e blockchain hanno caratterizzato negli ultimi anni più che altro operazioni commerciali di dubbia legalità, quando non delle truffe vere e proprie, più che un’opera di democraticizzazione del World Wide Web. Questo ha conseguentemente spinto l’opinione pubblica a considerare queste tecnologie nient’altro che vuote parole mistificatrici.

Senza contare che questa tecnologia è ancora estremamente nuova per gran parte dell’utenza di Telegram: nonostante l’applicazione sia estremamente popolare tra gli appassionati di criptovalute (che subiscono a loro volta una buona dose di critiche da parte di istituzioni, intellettuali ed esperti, minandone ulteriormente la fiducia da parte dell’utenza), non è errato supporre che solo una piccola parte dei 700 milioni di utenti si trovi a suo agio nell’uso di monete digitali per l’acquisto e la vendita di prodotti virtuali. L’idea che, da un giorno all’altro, parte dell’esperienza utente di Telegram diventi appannaggio di una minoranza specializzata e spesso rapace, per via della natura intrinsecamente volatile delle criptovalute, terrorizza chi (forse irrazionalmente) teme che ne sarà la prossima vittima.
Senza contare che Durov potrebbe essere a sua volta vittima di una bolla. Potrebbe credere che là fuori esistano persone intenzionate a spendere le cifre folli che ha menzionato (sui 250mila dollari) per comprare un indirizzo utente su Telegram (nel messaggio si parlava di Toncoin). Forse sì, esistono – ma sicuramente fanno capo a quella stessa minoranza.
Non serve Warren Buffet per capire che Telegram non possiede minimamente un mercato interno tale da giustificare gli investimenti che il team dell’app si aspetta (basti pensare ai due milioni di euro necessari per comprare pubblicità su Telegram), se non proprio quel mercato delle criptovalute, che, guarda caso, ha monopolizzato la piattaforma pubblicitaria di Telegram. Un fenomeno che in inglese si definisce come “circlejerking”, e che potremmo descrivere come il moto perpetuo di un circolo vizioso. Un fenomeno che si autoalimenta, ma che non si espande oltre i suoi confini naturali.
La mia speranza, e che so essere anche di molti altri che su Telegram hanno scommesso in tempi non sospetti, è che l’introduzione della TON su Telegram avvenga nel modo più ragionato e sensato possibile. Telegram è alla disperata ricerca di fonti di guadagno, ma le strategie finora impiegate non sembrano aver dato grandi risultati. È evidente che il ramo delle criptovalute, per quanto carico di frutti, a forza di scuoterlo diventerà magro. Occorre trovare nuovi settori, e magari promuovere un commercio forse un pelo più complesso, ma più sano e definitivamente più remunerativo degli acquisti ad alto valore, ma anche ad alto rischio (soprattutto d’immagine).
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