Che cos’è davvero il “Netflix della cultura” di Franceschini

Le parole sono importanti!

Quante volte sentiamo ripeterci questa frase, monito dell’importanza capitale del linguaggio e delle conseguenze che il suo uso (proprio o improprio) possono avere all’interno delle relazioni sociali. Benché il suo utilizzo venga oggi generalmente condannato quando applicato a persone o eventi umani, la generalizzazione può risultare utile quando si introduce un concetto alieno al nostro interlocutore: dire che uno scrittore è il “Tolkien spagnolo“, ad esempio, ci permette immediatamente di configurare il suo stile, il suo ambito di scrittura, e così via.

Quando si parla di tecnologia, l’uso di questo genere di paragoni (anche azzardati) è un espediente piuttosto comune: ci si aggrappa quasi disperatamente a quei pochi scogli che permettono di orientarsi in un mare in costante mutamento com’è il mercato della tecnologia oggigiorno. Ci sono prodotti che esistono da così tanto tempo da essere diventati delle antonomasie delle rispettive nicchie di mercato: Chrome per i browser, Google per i motori di ricerca, Facebook per i social network, e così via. Generalizzare è però anche un azzardo, perché si rischia di scivolare nella generalizzazione indebita: se non è sbagliato dire per esempio che “Firefox è il Chrome per chi non vuole Chrome“, perché in fondo sempre di browser si sta parlando, è controproducente dire che “Amazon è l’Esselunga degli e-commerce“, perché tra le due ci sono più punti di contrasto che di contatto.

Sfortunatamente questa tendenza è diventata sempre più frequente nel linguaggio di chi, proprio per via della sua (supposta, a questo punto) competenza, dovrebbe essere in grado di evitare certi errori. L’uso eccessivo di certe antonomasie porta infatti alla tendenza opposta a quella sperata – ossia, genera più confusione che altro. E le conseguenze sono spesso negative. Gli esempi sono alla portata di tutti, ma ne citerò due in particolare:

  • negli Stati Uniti è diventato frequente l’utilizzo, da parte della critica videoludica, della serie di giochi Dark Souls quale metro di paragone per la difficoltà di un qualsiasi videogioco. Dark Souls è un titolo fantasy pubblicato nel 2011 da FromSoftware. Considerato il suo alto livello di difficoltà, Dark Souls non solo è diventato molto popolare, ma anche la rappresentazione del videogioco difficile e penalizzante; dato che però la critica videoludica ha utilizzato questa antonomasia fin troppo di frequente e anche in contesti dove i collegamenti con Dark Souls sono inesistenti, questo paragone è diventato negli USA un meme di Internet. La conseguenza? Una perdita di credibilità del giornalismo videoludico statunitense.
  • Google Stadia, al suo debutto, fu denominato dai media “il Netflix dei videogiochi“. Un paragone che sarebbe stato poi smentito dalla stessa dirigenza della piattaforma e in particolare dal suo vice-Presidente John Justice, che in occasione del primo anniversario di Stadia ha negato che sarà mai intrapreso un modello di business simile a quello di Netflix: Stadia nasce come “console virtuale“, di cui adotta il medesimo sistema di vendita al dettaglio. A causa tuttavia sia di una cattiva presentazione da parte della stampa generalista, sia della formula di business all’inizio non chiara a tutti, molti credettero che sarebbe stato sufficiente pagare un abbonamento di pochi euro al mese per giocare a videogiochi normalmente acquistabili per 60-70€ l’uno. L’illusione prima e la delusione dopo non furono tali da decretare la fine prematura di Stadia; tuttavia ancora oggi molti critici sconsigliano l’uso di Stadia a favore di piattaforme come Amazon Luna e Xbox GamePass, che invece possono essere correttamente considerati dei “Netflix dei videogiochi“, proprio per via di questo grossolano errore di comunicazione.

Netflix, poi, sembra essere il paragone più apprezzato da parte della stampa e di coloro che lavorano con la tecnologia. Se cercherete “Netflix dei libri” ad esempio, troverete almeno tre piattaforme diverse citate nei risultati di ricerca. L’offerta di servizi ad abbonamento è cresciuta enormemente negli ultimi anni dato il suo successo commerciale, e Netflix è tra tutti il più conosciuto anche presso l’opinione pubblica meno tecnologicamente consapevole – sembra naturale dunque usarlo come antonomasia. Se però Usophy può essere davvero considerato il “Netflix dei libri universitari” (come scrive La Stampa) perché il modello di business è pressoché identico, diverso è scrivere che Serial Box è invece il “Netflix dei libri perché la vendita non avviene dietro sottoscrizione, ma comprando al dettaglio.


NON UN NETFLIX, MA UN TWITCH DELLA CULTURA

Ed è dopo questa lunghissima premessa che giungiamo a parlare del “Netflix della cultura” di Franceschini. Il 18 aprile 2020, in pieno lockdown, il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini esordisce su Aspettando le parole (programma condotto su Rai3 da Massimo Gramellini) con l’idea di un “Netflix della cultura” che possa venire in aiuto dell’industria dello spettacolo che ha sofferto enormemente le chiusure e le restrizioni dovute al contenimento della pandemia.

“Stiamo ragionando sulla creazione di una piattaforma italiana che consenta di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento, una sorta di Netflix della cultura, che può servire in questa fase di emergenza per offrire i contenuti culturali con un’altra modalità, ma sono convinto che l’offerta online continuerà anche dopo: per esempio, ci sarà chi vorrà seguire la prima della Scala in teatro e chi preferirà farlo, pagando, restando a casa”

Questo annuncio è stato in verità recepito in maniera un po’ sonnacchiosa da parte della stampa generalista. Complice forse la situazione – contagi in crescita preoccupante, primo mese di lockdown completo – è stato solo in occasione della seconda uscita importante sul suo “Netflix della cultura, avvenuta nel corso dell’evento “Next Generation: The Italian Innovation Society” che Franceschini si è attirato le prime critiche, i rimbecchi, le frecciate al veleno. Davanti alla prospettiva di un “Netflix della cultura” realizzato da Cassa depositi e prestiti con 10 milioni di euro prelevati dal Recovery Found, molti sono rimasti sconcertati.

Che si tratti infatti dell’ennesimo progetto imprenditoriale di uno Stato che, nel tentativo di salvarli, sembra volersi sostituire ai privati – dimenticandosi nel frattempo proprietà già collaudate che potrebbero servire lo scopo?

Già: innanzitutto, la Rai. Sul Foglio si ricorda al ministro che la Rai e Rai Play sono più che sufficienti a svolgere il ruolo di “Netflix della cultura:

“O il ministro per i Beni culturali non si è accorto che sta chiedendo di istituire qualcosa che già esiste. Oppure ci sta dicendo che la Rai non sarà mai capace di ‘proiettare nel futuro’ lo spettacolo italiano e raggiungere i giovani attraverso le nuove tecnologie. Non solo: è talmente inefficiente che Cdp, con soli 10 milioni, potrebbe fare ciò che la tv di Stato non è capace di fare con 2 miliardi all’anno.”

Luciano Capone e Carlo Stagnaro su Il Foglio

Una posizione che già Fanpage e Jacobin Magazine avevano già espresso (con varie sfumature) ad aprile. Senza contare che l’idea di un “Netflix della cultura” non sembra essere poi così nuova: su Business Insider si ricorda al ministro Franceschini i successi di Arte.tv, emittente franco-tedesca che da trent’anni si impegna a diffondere su tutto il continente europeo il meglio della cultura con la C maiuscola e che collabora attivamente con la Rai.

Ci si può domandare se Franceschini, impegnato com’era a rinnovare la tassa sulla copia privata al tempo della sua prima uscita sul “Netflix della cultura“, si possa essere dimenticato della Rai – onestamente, non lo credo. Il problema è invece di comunicazione: non è l’idea ad essere sbagliata, ma sono i modi, i tempi e la forma.

Va detto che è difficile dire cosa Franceschini intenda veramente con “Netflix della cultura, e che è più che lecito contestare di fronte a quest’idea l’esistenza di un’emittente florida, pasciuta e sovvenzionata dai cittadini com’è la Rai. Il ministro è stato infatti estremamente parsimonioso sulle informazioni che riguardano la natura del suo “Netflix della cultura in tutte le occasioni in cui ha voluto o ha avuto modo di parlarne (poche, a dire la verità), tanto che è lecito pensare si tratti di un progetto fumoso e poco definito. Alle volte il ministro dice che “è già stato finanziato“, lasciando pensare che i 10 milioni siano già stati spesi – però non si è ancora visto niente; altre volte che “stiamo costruendo con Cdp” questa piattaforma, salvo poi leggere altrove che la partecipazione della Cdp sembra essere opzionale e finora limitata alla fase progettuale.

La realtà è che ciò che il “Netflix della cultura” di Franceschini non è affatto Netflix, o almeno non del tutto e non nella sua parte più innovativa che non è una TV ad abbonamento, ma un portale di prenotazione di eventi dal vivo trasmessi via streaming. Leggendo infatti la velina trasmessa in occasione dell’inserimento del progetto nel Decreto Rilancio nel maggio 2020, scopriamo che:

“prevede fondi per 10 milioni nel 2020 per realizzare questa piattaforma digitale pensata per la fruizione del patrimonio culturale e di spettacoli, “anche mediante la partecipazione” della Cdp. […] Anche per questa ragione è stata dunque pensata una piattaforma che trasmetta sia spettacoli realizzati proprio per il digitale sia prodotti che possono essere visti e ascoltati in sala e in streaming, secondo un modello misto. […] L’intento del progetto è quello di valorizzare non solo le grandi produzioni famose tipo quelle della Scala, ma anche spettacoli più di nicchia e meno appetibili e sostenibili economicamente. D’altro canto si cercherà anche di valorizzare l’arte italiana, prevedendo delle produzioni, anche di tipo seriale, per raccontare i musei, le collezioni, le opere d’arte”

Sorprende che sia un comunicato a rivelare più chiaramente i dettagli del “Netflix della cultura” di Franceschini che Franceschini stesso. D’altronde il problema (ironico, non c’è che dire, per un ministro dei Beni Culturali) è di linguaggio: non stiamo parlando di un “Netflix della cultura – ma, tuttalpiù, di un “Twitch della cultura. Quello che il comunicato di racconta è una piattaforma tramite la quale trasmettere eventi online: un servizio che ancora non esiste (“un tipo di offerta quasi del tutto assente”, si legge): beninteso, i concerti online non sono una novità. Lo è invece l’idea di un servizio che accentri tutte le fasi di organizzazione di un evento: vendita del biglietto (da qui l’idea di una piattaforma “a pagamento”, credo), promozione e trasmissione online in livestreaming. Una cosa del genere l’ha pensata già solo Bandcamp, che si rivolge però ad un pubblico meno trasversale di quello del “Netflix della cultura” di Franceschini.

I problemi che sorgono sono invece altri. La natura pubblica della piattaforma, per esempio (“il progetto potrà coinvolgere anche altri soggetti, pubblici e privati; la governance e il nome sono al momento in discussione“). A uno Stato imprenditore è preferibile uno Stato che promuove l’imprenditoria, specie in Italia dove non sembra essere né particolarmente in forma, né troppo originale o incoraggiata all’originalità – la stessa che altrove, alla Silicon Valley ma non solo, ha contribuito a forgiare l’economia digitale degli ultimi venti anni. Inoltre: la gestione di trasmissioni in streaming richiede server estremamente performanti: viste le ultime performance dell’amministrazione pubblica in termini di gestione del flusso di utenza, le prospettive se non disarmanti sono sicuramente poco incoraggianti.

Infine, il grado di disponibilità di questa piattaforma: qualche particolare della descrizione sembra suggerire che non si tratterà di una soluzione aperta a tutti, ma che avrà un certo grado di impenetrabilità da parte delle forme più basse e meno organizzate di manifestazione della cultura. Nonostante la partecipazione di aziende dovrebbe sottintendere che si tratterà di un servizio disponibile appunto sia per la pubblica amministrazione che per i privati cittadini, dall’altra problemi di natura concorrenziale e di stabilità del mercato (chi potrebbe mai competere con la disponibilità economica di uno Stato?) mi portano a pensare che non tutti potranno usufruirne, perlomeno non subito, ma si darà priorità alle necessità delle proprietà del Mibact che forse potrebbero trovarsi un po’ in imbarazzo ad operare in ambienti più commerciali. Ve la immaginate, la prima della Scala su Twitch?


MUSEI SERIALI

Certo, la piattaforma non rimarrà esclusivamente legata al modello del live-streaming – eppure, sembra l’unica opzione viabile per renderla attuale anche in un contesto post-pandemico. Nel corso delle  sue dichiarazioni il ministro Franceschini ha infatti aggiunto agli eventi live-streaming altre tipologie e luoghi di manifestazione della cultura che saranno al centro del suo Netflix: musei, cinema, produzioni anche seriali.

“Al momento non è possibile sapere quanto dureranno le misure di restrizione per cinema, teatri, prosa e spettacolo dal vivo, e quindi questa proposta vuole essere un’integrazione. Nessuno, sia chiaro, pensa di sostituire la bellezza dello spettacolo dal vivo o di una visita di persona ad un museo. Questa integrazione può dare la possibilità, anche una volta finita l’emergenza sanitaria, a chi vuole restare a casa o sta in qualsiasi parte del mondo, di visitare un museo o di godere di un film o di un’opera teatrale. Inoltre è un grande veicolo di promozione della cultura del nostro paese.”

Dario Franceschini a Finestre Sull’Arte, 20 novembre 2020

La produzione seriale di cui si parla nella velina (“[…] valorizzare l’arte italiana, prevedendo delle produzioni, anche di tipo seriale, per raccontare i musei, le collezioni, le opere d’arte […]“), in riferimento ad elementi della cultura che non possono per forza di cose essere trasmessi nelle stesse modalità di uno spettacolo o di un concerto, pare confliggere con le produzioni già offerte dalla Rai, o che la Rai potrebbe offrire. Certo, si può pensare a pacchetti a pagamento di tour virtuali (o disponibili dietro abbonamento, come Netflix) di musei, suddivisi per le varie sezioni, ali o collezioni che essi contengono – ma potrebbe forse trovare più mercato in un pubblico straniero piuttosto che italiano, più facilitato a visitare i luoghi di persona invece che online.

In effetti sembra che questo “Netflix della cultura” sia sviluppato con grande attenzione per il mercato internazionale ed estero: lo dice il comunicato (“[…] Si tenderà inoltre a connotare il prodotto con una forte proiezione internazionale […]“), lo dice il ministro nell’intervista citata poco più sopra. Tuttavia, a voler accontentare entrambi i mercati sia quello estero che quello italiano, con gusti ed esigenze diverse – c’è il rischio di partorire una piattaforma strabica, incapace di vedere il palo che prima o poi centrerà continuando per la sua strada. Inoltre, dato il ruolo della Rai nella promozione della cultura italiana, non rischiano le due entità di sovrapporsi e di ostacolarsi a vicenda? Certo, la concorrenza stimola il mercato, ma… una concorrenza tra entità pubbliche? Le pesanti critiche rivolte a Franceschini assumono, sotto questo punto di vista, più senso.


I CINEMA

Molto più misteriosa è la connessione tra cinema e il “Netflix della cultura” di Franceschini. Il ministro prevede di inserire i film tra le proposte della piattaforma, ma le modalità di tale inclusione rimangono inesplorate.

I problemi sono di diversa natura – innanzitutto, la trasmissione in streaming dovrà essere avallata dalle major cinematografiche: visto però che la cultura italiana sarà centrale nell’approccio allo sviluppo di questa piattaforma, tralasciamo in questa analisi speculativa le realtà estere. Il cinema italiano sarà contento di aderire a un progetto che gli consenta di raggiungere un più ampio pubblico  estero (attirato da visite ai musei, concerti, eccetera) ma anche domestico, magari tra quelli che vengono tentati dai cinema solo dalle grandi produzioni straniere – e nel 2021 ce ne saranno parecchie, con il rischio di offuscare le controproposte nostrane.

Resta da capire come saranno spartiti i guadagni. Il Netflix di Franceschini dovrebbe infatti aiutare i cinema italiani, che diventerebbero però in questo modo superflui, e non (solo) il cinema italiano in quanto tale.


TROPPO TARDI?

Non posso sapere se le speculazioni (perché tali sono) contenute in questo EDIToriale si riveleranno fondate, almeno in minima parte. Non so nemmeno se augurarmelo. Tuttavia, un elemento emerge con chiarezza: il “Netflix della cultura” di Franceschini non è chiaro a nessuno, forse nemmeno al ministro stesso. Sulla carta si tratta di una piattaforma gigantesca, che spazia dal cinema all’esperienza museale, dai concerti alla prima della Scala. Quanto detto dal titolare del Mibact nelle varie interviste qui riproposte non sono altro che una continua riproposizione degli stessi contenuti, che si ripetono nonostante tra l’una e l’altra trascorrano settimane, mesi.

L’accoglienza fredda, se non apertamente ostile della stampa e degli addetti ai lavori non è una reazione cocciuta e asinina: è la manifestazione di un disagio provocato dalla fumosità di un’idea che, oltre ad essere poco chiara per se, rischia di arrivare fuori tempo massimo se intesa come forma di sollievo economico per le attività culturali colpite dalla pandemia.

“La creazione di una piattaforma, abbiamo detto “Netflix della cultura italiana“, cioé un luogo, una piattaforma che è già stata avviata con 10 milioni di euro da Cassa depositi e Prestiti, che è una società pubblica, in cui offrire a pagamento la cultura italiana: prosa, danza, musica, lirica, cinema, tutta la cultura italiana. In una fase emergenziale può integrare le risorse e offrire l’accesso quando hai le sale chiuse, i teatri chiusi puoi vederti uno spettacolo in streaming. Ma può continuare positivamente anche dopo perché nessuno pensa di sostituire lo spettacolo dal vivo: che cosa c’è di male? Tra un anno, quando sarà finita l’emergenza.”

Dario Franceschini a Che Tempo Che Fa, 1 novembre 2020

Per carità, è ovvio che un progetto tanto mastodontico non possa risolversi in pochi mesi – tuttavia, ritengo comprensibile che molte persone che dalla cultura ci traggono un sostentamento, e che vedono nel Mibact un punto di riferimento in questi tempi disperati, si sentano quantomeno presi in giro.

Dato che poi il paragone con Netflix è molto caro al ministro Franceschini, voglio concludere con un confronto di tipo economico tra la matrice originale e la sua copia, visto che in questa faccenda i numeri sembrano essere l’unico elemento certo. Netflix nel gennaio 2020 aveva speso oltre 17 miliardi di dollari per l’ampliamento del proprio catalogo; i dieci milioni di Franceschini sembrano svanire a confronto. Speriamo che lo stesso non faccia il “Netflix della cultura” dato che, al netto di quello strato di incomunicabilità che sembra separare Franceschini dal grande pubblico, sembra persino una buona idea.

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