#Applefun: Spotify vs Apple, perché Spotify ha ragione (ma non del tutto)

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Apple è un monopolio? A questa domanda non dovrete rispondere né voi né tantomeno noi, ma la Commissione Europea – chiamata a giudicare le pratiche commerciali della casa di Cupertino e valutare i provvedimenti da adottare per riequilibrare il mercato delle applicazioni iOS, qualora venisse registrata la presenza di elementi contrari al principio della concorrenza. Ad invocare l’intervento dei giudici europei è stata una delle più grandi aziende dell’UE impegnata nel digitale – la svedese Spotify, che da anni conduce una guerra privata contro Apple e le sue modalità di controllo della distribuzione delle applicazioni sull’App Store. Tra accuse e contro-risposte, lo scontro Spotify vs Apple è salito nell’ultimo mese ad un nuovo livello di tensione, poiché il verdetto della Commissione potrebbe modificare radicalmente l’App Store, almeno in Europa.

Nell’analisi dei fatti e delle accuse che le due compagnie si sono vicendevolmente rivolte (Apple, accusata di monopolismo, ha definito Spotify “approfittatrice” e “ipocrita“) il piatto della bilancia tende verso la casa di Cupertino, ma non completamente né in maniera particolarmente decisa. Siete pronti per scoprire perché?

MONOPOLIO, CONCORRENZA E LA LETTERA SCARLATTA

Più che i competitors, sono le autorità europee a spaventare i giganti della tecnologia che da diversi decenni scorrazzano più o meno liberamente sul territorio comunitario, e anche oltre. Da Google a Qualcomm, passando per la storica sentenza contro Microsoft che nel 2004 che costrinse la società americana al pagamento di 479 milioni di dollari (a cui si aggiungono altri 899 milioni inflitti quattro anni dopo) – “E’ la prima volta in 50 anni che la Commissione UE ha inflitto una multa per mancato rispetto di una decisione antitrust“, asserì l’allora commissario UE alla Concorrenza Neelie Kroes – occorre prestare sempre più attenzione alla conformità delle proprie regole agli standard europei sulla concorrenza.

La faccenda è seria: negli ultimi tre anni Google è stata condannata ben tre volte, e oltre all’erogazione di multe per diversi miliardi di euro è stata costretta a modificare il sistema di distribuzione di Android e delle Google App in Europa, così come di altri servizi forniti ai consumatori (come Google Shopping, per esempio). Per questo motivo lo scontro Spotify vs Apple, apparentemente una banale diatriba su questioni di lana caprina, tinge di fosche tinte il cielo per il grande produttore di Cupertino.

La storia è più che vecchia: già nel 2016 Spotify aveva pubblicamente manifestato il proprio disappunto nei confronti dei parametri di revisione degli aggiornamenti delle app dell’App Store, diffondendo una piccata lettera indirizzata ad Apple che aveva poi risposto al servizio di streaming per bocca del general counsel della compagnia Bruce Sewell. “I would be happy to facilitate an expeditious review and approval of your app as soon as you provide us with something that is compliant with the App Store’s rules“, aveva scritto a Daniel Ek, CEO della compagnia, precisando che le modifiche richieste in fase di revisione al servizio di streaming puntavano (e ci erano riusciti) ad eliminare le modalità di pagamento introdotte da Spotify per aggirare in maniera piuttosto deliberata il sistema di transazione di Apple, reso obbligatorio qualche anno prima.

Le regole dell’App Store prevedono infatti l’utilizzo, per la vendita di beni che sono direttamente consumati all’interno del device, del sistema di pagamento proprietario di Apple. Ciò che Spotify non gradisce di questa imposizione è la percentuale riscossa dall’azienda di Cupertino su tutti i guadagni: un 30% netto (il primo anno; dopodiché, si riduce al 15%), che incide profondamente sulle economie interne delle applicazioni e delle loro software house e sviluppatori. Nel 2014 Spotify, che si era finalmente risolta ad adottare la soluzione di pagamento, aveva dovuto aumentare il prezzo delle sottoscrizioni per fronteggiare l’impatto dei nuovi costi, portando il prezzo del singolo abbonamento mensile a 12,99€ su iOS, dal precedente 9,99€. La vera incrinatura nei rapporti era accaduta però l’anno dopo, quando Apple – da semplice distributore – era diventato a sua volta un competitor, introducendo il proprio servizio di streaming Apple Music, il cui abbonamento mensile si posizionava sulla vecchia fascia dei 9,99€ di Spotify.

Oggi Spotify ha denunciato Apple alla Commissione Europea per pratiche concorrenziali scorrette, e aprendo anche un sito web di denuncia contro le attività della casa di Cupertino; ma chi ha ragione veramente?

L’ELEFANTE NELLA STANZA

Apple Music è il vero elefante nella stanza: senza, l’intero scontro Spotify vs Apple si ridurrebbe infatti ad una protesta lamentosa di un cittadino che, posto davanti all’urgenza delle tasse da pagare per sostenere i servizi che gode, all’improvviso accampa mille scuse e proteste ingenerose per evitare di sganciare la giusta mercede.

Che si tratti di un argomento particolarmente spinoso, lo si può notare leggendo la lettera di risposta inviata da Apple a Spotify: non una sola volta la casa di Cupertino ha menzionato il proprio servizio di streaming, nonostante le accuse di Spotify si rivolgano anche alla duplice natura di Apple quale fornitore di servizi e concorrente nello stesso mercato. Disponendo così di un vantaggio competitivo enorme: essendo Apple Music di proprietà della stessa Apple, non è costretta a separarsi da nessuna percentuale di guadagno per continuare ad offrire ai propri clienti l’integrazione con iTunes.

I frutti non tardano ad arrivare: potendo offrire prezzi più vantaggiosi degli altri competitor, Apple Music dispone di margini di manovra decisamente più ampi. Questi, per esempio, si concretizzano già nella vittoria (tutta mediatica, urlata dai quotidiani statunitensi) riportata recentissimamente agli occhi dell’opinione pubblica e degli stessi artisti, essendo l’unica azienda a non essersi opposta (al contrario di Amazon, Spotify, Google e SitiusXM/Pandora, tutti concorrenti del mondo dello streaming audio) alla decisione del Copyright Royalty Board di aumentare del 44% i compensi di cantanti e creator nei prossimi 5 anni. La scelta, secondo gli oppositori, è maturata sulla base delle complicate regole poste dalla CRB sulle modalità di erogazione dei bundle per studenti e altre offerte, ma l’incomprensione tra artisti e Spotify cresce ulteriormente a vantaggio di Apple.

Oppure – ed è molto più solida, in questo caso – nel sorpasso da parte di Apple Music vs Spotify nel più grande mercato musicale al mondo, gli Stati Uniti: secondo il Wall Street Journal, la piattaforma di Apple dispone di 28 milioni di abbonati paganti contro i 26 di Spotify, e di un tasso di crescita superiore (2,6-3% contro l’1,5-2%). Sempre stando al WSJ, le posizioni si sarebbero dovute invertire già sei mesi fa, ma l’azienda svedese era riuscita a mettere una pezza alla copiosa falla della diga siglando un accordo con la piattaforma di streaming video Hulu, proponendo un pacchetto contenente entrambi i servizi ad un prezzo scontato.

Anche se a livello globale lo scontro Spotify vs Apple non ha senso di esistere – la creatura di Daniel Ek conta 96 milioni di sottoscrittori paganti, Apple Music non raggiunge i 50la tensione cresce. E non solo presso Spotify, e non solo all’interno di iOS.

IL 30% DELLA DISCORDIA

La vexata quaestio non si riduce esclusivamente al confronto Spotify vs Apple, né l’esistenza di Apple Music e dunque di un concorrente direttamente sponsorizzato dall’azienda che mette a disposizione la piattaforma alla quale una percentuale dei guadagni sono dirottati.

Il malcontento è diffuso ed è completamente diretto nei confronti dei fornitori di servizi (Google e Apple), osservati con astio, fastidio o semplice indifferenza da parte dei principali player sul mercato delle applicazioni: il critico più feroce (ed interessato, e capirete perché tra poche righe) è il CEO di Epic Games Tim Sweeney, società sviluppatrice del più grande successo videoludico degli ultimi tempi – Fortnite. Al momento del suo lancio su Android, Epic ha deciso di bypassare completamente il Play Store distribuendo l’applicazione attraverso il proprio sito webprivando così Google degli incassi milionari fatturati tramite la percentuale di guadagno che richiede agli sviluppatori che si servono dei propri servizi (alla pari di Apple), al contempo esponendo i propri utenti al rischio concreto di cadere nelle trappole dei malware in assenza di software di sicurezza come il Google Play Protect.

La mossa, inedita su Android per un’azienda delle proporzioni di Epic, ha scosso il mercato – ma era solo la prima fase: Epic ha poi annunciato il prossimo avvio di uno store di applicazioni concorrente a Google Play – oltre a Steam, altro monopolista di un mercato completamente diverso, quello dei giochi per PC – dove richiederà percentuali decisamente inferiori al “30%” di Apple e Google: solo il 12% di tutti i guadagni, almeno inizialmente.

Non si tratta di una sfida impossibile per Epic il cui market per Windows e Mac ha già raccolto consensi presso software house rinomate e che dispone già di esclusive invidiabili; ben diversa sarà la concorrenza a Google Play, comunque non impossibile per via della libertà di cui godono gli sviluppatori su Android – libertà di fare concorrenza a Google stesso, per quanto finora tutti i tentativi (Amazon in testa) abbiano solamente scalfito la superficie del Play Store.

Come nel caso di Spotify vs Apple, così il tema della concorrenza ritorna per l’App Store contro il quale Epic non può, realisticamente parlando, sperare di porsi in competizione: Apple detiene il controllo di iOS ed iTunes ed esercita il suo pugno di ferro con spietata ferocia. Tuttavia, solamente la notizia che un altro giocatore potesse entrare nell’arena dei distributori di servizi ha fatto alzare le orecchie a molti: prima di tutto a Gary Swindler, CFO di Match Group (società proprietaria di Tinder). In una lunga dichiarazione, Swindler – pur assumendo un atteggiamento prudente, proprio di chi non intende infastidire un gigante che dorme – ha sottolineato che il 30% richiesto da Apple e Google, per quanto esoso, è stato integrato nel modello di business che Tinder applica nel suo mercato: per quanto la percentuale sia alta, la popolarità di Tinder (“brand awarness“) è tale da rendere sopportabile una spesa rivolta a sostenere una serie di servizi funzionali al mantenimento della propria influenza commerciale.

Ma è comunque con “grande interesse” che Swindler segue l’evoluzione del mercato delle app poiché non solo chiaramente la riduzione di quel 30% sarebbe di vantaggio per Tinder, ma anche per tutti quegli sviluppatori di medie e piccole dimensioni che, al contrario, non godono di simile fama e soffrono per la perdita di incassi che quella “Apple tax” del 30% comporta.

Il ragionamento di Swindler sembra corroborato dai fatti: l’unica società che finora si sia potuta permettere di ritirarsi dal supporto ad iTunes (senza pagarne le conseguenze) è stata Netflix, che all’inizio del 2018 ha deciso di privare Apple dei guadagni provenienti dalla più profittevole delle applicazioni dell’App Store, prevedendo – correttamente – che la propria “brand awarness” avrebbe comunque convinto gli utenti ad utilizzare lo scomodo passaggio al sito web per sottoscrivere l’abbonamento, al posto del pagamento in-app offerto da Apple. Ma per chi non dispone di questo potere, che succede?

DI TRAVI E PAGLIUZZE

Per tornare dunque all’iniziale oggetto del contendere, sembra proprio che nello scontro Spotify vs Apple sia il primo ad avere, moralmente, ragione. La denuncia sporta da Spotify alla Commissione Europea per pratiche concorrenziali scorrette nei confronti di Apple potrebbe determinare serie conseguenze per la casa di Cupertino, qualora la Commissione si pronunciasse a favore dell’azienda svedese. Tuttavia, tanto controversa quanto quel “30%” di Apple è la percentuale Spotify paga però ai propri artisti: in una recente tweet-storm di fuoco il musicista David C. Lowery si è scagliato conto la piattaforma di streaming, rea di corrispondere ai musicisti un compenso fin troppo striminzito dei guadagni generati con il proprio modello di pagamento.

Un’accusa fondata? Non lo sappiamo: attualmente non esistono dati precisi sulle percentuali di pagamento applicati agli artisti da parte dei servizi di streaming; tuttavia, non è la prima volta che l’azienda svedese finisce al centro delle polemiche per via del basso rendimento che la sua affiliazione – praticamente obbligatoria, vista la percentuale di mercato detenuta – procura ai suoi musicisti. Bisogna dunque che Spotify non esageri: ciò che viene lanciato, spesso, può tornare indietro.

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