I 5 peggiori fallimenti di Google del 2018 | Parte 2

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La lotta per la supremazia si può fare spesso dura e accanita: può capitare dunque che non tutte le ciambelle riescano col buco, e che anche un gigante della tecnologia come Google possa mancare qualche obbiettivo. Le cause di questi insuccessi possono essere sia esogene (ossia indipendenti dalla volontà di Google, per le quali non può essere dunque accusata) sia endogene (viceversa, per le quali Google è la prima responsabile), ma generalmente hanno impatto limitato sulla vita degli utenti. Nel corso del 2018 non sono stati particolarmente numerosi, e si potrebbero raccogliere facilmente in una classifica come questa. Tuttavia, non è quello che faremo: noi infatti parleremo dei fallimenti di Google.

E con questa classificazione a parte andremo ad analizzare i tonfi più assordanti, così come le cadute di stile più rovinose di un’azienda che in certi campi, specialmente la messaggistica ed il networking, dimostra una schizofrenia quasi patologica, le cui conseguenze hanno avuto impatto su milioni di utenti e determinato un serio calo della credibilità della società.

Siete pronti per scoprire tutti i fallimenti di Google del 2018?

NOTA BENE: in questa pagina sono stati raccolti i principali fallimenti di Google. Se vuoi scoprire quali sono i principali successi di Google nel 2018, vai a QUESTA pagina!

#1 - PROJECT DRAGONFLY

Che l’intera architettura del piano di Google per penetrare in Cina fosse assolutamente pericolante, lo si era intuito già dal primo leak che il quotidiano online The Intercept aveva diffuso lo scorso novembre. La storia di un motore di ricerca censurato che Google avrebbe introdotto in Cina, in completo contrasto con qualsiasi dichiarazione mai rilasciata dalla società in materia di privacy e protezione dei dati personali, apparì inizialmente fumosa e inconsistente, ma più le dichiarazioni, i nomi e i dettagli vennero portati alla luce dal loro sarcofago di silenzio, più la maledizione del faraone si abbatteva su Google e sul principale promotore dell’iniziativa: il CEO Sundar Pichai.

Google in Cina non succederà, non adesso

Il progetto era semplice: realizzare un motore di ricerca censurato che filtrasse dai risultati mostrati parole chiave fornite dal governo centrale, prelevate da un elenco di “termini proibiti e sovversivi” che nessuno conosce veramente – ma che, presumibilmente e sulla base di altri report, si collegano a fatti di cronaca particolarmente sensibili nonché argomenti di attualità considerati scomodi per il governo centrale. Al motore di ricerca (chiamato “Maotai” o “Longfel“) si sarebbe poi aggiunta un’app per la visualizzazione delle notizie del giornouna specie di Google News per il mercato cinese – anch’essa accuratamente modificata nel suo algoritmo di selezione delle informazioni.

E tanto tuonò che piovve: l’azienda venne infatti travolta da un ciclone di critiche che trovò il suo occhio e cuore all’interno dello stesso staff di Googlers, legati all’azienda ma anche a codici etici e professionali ai quali erano stati educati non soltanto da organizzazioni lavorative come la Association of Computing Machinery (che vieta di concorrere alla creazione di software o hardware che potrebbero opprimere o danneggiare le persone), ma da Google stessa. Lanciandosi in uno sfrenato tango con il governo cinese davanti ad un’opinione pubblica sedotta e abbandonata, Google inciampò più volte, tanto da rovinare per terra: uno stile di comunicazione volutamente sibillino e ambiguo (i giornali titolarono più volte i cambi di rotta di Pichai, che ad ogni intervista smentiva o confermava i progressi sul Project Dragonfly a seconda dell’interpretazione che si poteva fare delle sue parole), così come spiacevoli dissidi interniil privacy team isolato ed escluso nel processo di revisione del progetto, teoricamente obbligatorio – hanno condannato quest’avventura al primo posto tra i fallimenti di Google del 2018.

#2 - GOOGLE+, ALLO, INBOX

Inbox, Allo e Google+ sono tre servizi che hanno tra loro poco in comune: Inbox è un’app per la gestione della posta elettronica; Google+ un social network; Allo un’app per la messaggistica. Sebbene tutte e tre possano essere accomunate da una finalità prevalentemente di aggregazione sociale, la vera ragione per cui vengono annoverate tra i fallimenti di Google del 2018 è l’imminente chiusura che aspetta ciascuno di questi servizi nel 2019.

La cessazione delle attività di una piattaforma online non sempre sono da ricollegarsi ad una malagestione delle risorse o allo sciupio delle sue potenzialità: può capitare infatti che social network e applicazioni perdano di significato per via dell’evoluzione dei processi, degli usi e delle mode digitali che alla fine decretano la vecchiezza di un prodotto – e con essa il calo di utenti, di introiti ed infine di ragioni per mantenerlo attivo. Sfortunatamente, non è il caso né di Google+, né di Allo o di Inbox.

Semplicistico, ma nemmeno sbagliato

Nato come ennesimo ariete per lo sfondamento di Google nel panorama della messaggistica, Allo ha fallito a impressionare la platea in qualsiasi veste venisse presentato. Non ha funzionato come successore di Hangouts, poiché mancava di supporto agli SMS; non interessava come piattaforma per l’interazione utente-AI, data sia l’indisponibilità del Google Assistant in qualsiasi lingua fuorché l’inglese o l’hindi, sia il vago senso di disagio provocato da un’intelligenza artificiale capace di leggere ogni messaggio inviato o ricevuto – nonostante le rassicurazioni di Google. E ha mancato di differenziarsi dalla concorrenzaWhatsApp, ma non solo – ripetendone pedantemente ogni errore tecnico, dal necessario collegamento ad un numero di cellulare all’interdipendenza tra client web e applicazione.

Per Inbox, la questione è diversa: l’app non è nata come successore di GMail, viva e vegeta e tra i più popolari gestori di posta elettronica; ma come sua alternativa. Inbox by GMail, e poi solo Inbox, ha conquistato una nicchia di fedeli appassionati grazie alle proprie feature particolari e alternative all’applicazione ufficiale: alcune di queste, dopo un testing positivo su Inbox, sono poi state riprodotte anche su GMail; altre (molte altre) sono rimaste ferme alla base. Google pensava che ciò che era stato fatto con Waze, sarebbe stato possibile anche con Inbox: sfortunatamente l’app non ha conquistato tutti quei seguaci che l’azienda sperava, conquistandosi così un posto sulla lista nera dei fallimenti di Google.

Google+ chiuderà, e curiosamente non per colpa della sua desertificazione

Su Google+ le cose da dire sarebbero numerosissime; per spezzare una lancia a favore del social network, nonostante l’uso limitato da parte dei suoi utenti conservava ancora una certa attrattiva nei confronti di determinate e circostanziate nicchie sociali. E difatti, a convincere l’azienda a staccare la spina al suo omonimo (e più longevo) social network non è stato il suo stato semicomatoso, quanto piuttosto la scoperta di due vulnerabilità che avrebbero esposto i dati di milioni di utenti, e che Google ha poi gestito in maniera clamorosamente maldestra sia dal punto di vista tecnico che da quello comunicativo.

Nascondere una simile falla non è (così) grave in sé per sé – Facebook ha subito danni peggiori, ripetutamente, ma continua a macinare utili nonostante il calo di popolarità da Cambridge Analytica in poi – ma assume i tratti di un cesaricidio nel momento in cui la lama si è abbattuta sulla schiena di un’utenza fedele a un social network che solo un anno fa veniva registrato tra i successi, e non tra i fallimenti di Google, e sul quale nessuno se non loro faceva più affidamento.

E qui si trova il vero fallimento di Google: la mancanza di fiducia che queste chiusure rappresentano. Come potrà qualsiasi utente iniziare un percorso (sviluppando dunque un attaccamento e magari una certa dipendenza dalle sue funzioni specifiche e particolari) all’interno di una piattaforma sociale che al 90% delle probabilità verrà chiusa nell’arco di uno, due anni al massimo?

#3 - HANGOUTS

Nell’epoca dei reboot e dei remake, non poteva mancare anche nel mondo della tecnologia un comeback di proporzioni sorprendenti. Questo insperato (ma atteso?) ritorno prende il nome di Hangouts, e noi già preventivamente lo poniamo tra i fallimenti di Google del 2018, e probabilmente anche del 2019.

Hangouts, Hangouts Chat e Hangouts Meet: che futuro nella messaggistica consumer?

Hangouts è infatti la piattaforma di messaggistica di cui non abbiamo bisogno, ma che probabilmente ci saremmo meritati se Allo non fosse mai esistito: tuttavia il ritorno-rientro di Hangouts Chat e Meet, versioni business della piattaforma di messaggistica chiusa nel 2016 proprio per fare posto alla ormai defunta app di chat, come si inserirà nel frastagliato panorama della messaggistica di Google? Hangouts Meet, ideato per videochiamate e conference-call, inevitabilmente si porrà in contrapposizione con Duo, fratello bello e intelligente di Allo e a lui ampiamente sopravvissuto. Hangouts Chat invece potrebbe rivelarsi un ennesimo rimpiazzo per Allo, visto che degli SMS dovrebbe teoricamente occuparsene la nuova app per i messaggi RCS “Chat, e non esiste più un social network per cui fungere da piattaforma di conversazione.

Probabilmente si tratta di una stroncatura prematura, ma con Allo e Google+ nel braccio della morte facciamo davvero fatica ad essere ottimisti.

#4 - UE E COPYRIGHT

Il 2018 si è chiuso con un nuovo anno nero, e dunque anche con un nuovo fallimento, per Google ed i suoi interessi nel confronti dell’Europa e dell’Unione Europea.

Solo nei dodici mesi appena trascorsi la società di Mountain View si è vista assegnare una multa da 4,3 miliardi di dollari e l’obbligo di rivoluzionare la vendita e distribuzione di Android e delle proprie Google App, con l’obbiettivo – non apertamente dichiarato, ma sicuramente appoggiato – da parte dell’Unione Europea di favorire così la nascita di sistemi operativi alternativi ad Android nell’UE. O quantomeno di rendere più facile la vita agli sviluppatori di applicazioni e piattaforme concorrenti di GApp come Chrome, Maps o GMail, e che vedono il proprio margine di manovra diventare inconsistente con l’allargamento della platea di utenti delle succitate applicazioni – fenomeno alimentato anche ma non solo dalla pratica di Google di richiedere la loro installazione di default.

#SaveYourInternet, l’iniziativa lanciata da Google per contrastare la Copyright Directive

Ma ad interessare la nostra classifica di fallimenti di Google è la sconfitta registrata dall’aziendainsieme ad altre decine, centinaia di compagnie del digitale impegnatesi nella pugnacontro l’approvazione della Copyright Directive. La Direttiva sul Copyright e i suoi famigerati articoli 11 e 13 potrebbero causare la fine di Google News in Europa e fors’anche di YouTube, a causa di una distorta legge sul diritto d’autore che costringe le piattaforme di aggregazione a forme di compensazione insostenibili per il mercato attuale. Ad acuire il senso di beffarda sconfitta non è solo la rivalsa ottenuta dai fautori della riformache avevano visto inizialmente la proposta bocciata alla prova dei voti – ma anche la comparsa, a votazioni concluse (a favore dell’approvazione) di banner su YouTube segnalanti la minaccia che i due articoli 11 e 13 potrebbero rappresentare per la libertà d’espressione. Utili, ma forse un po’ tardi.

#5 - UE E COPYRIGHT /2

Ultimo, quasi marginale tra i fallimenti di Google sopra descritti, è l’accordo trovato tra l’azienda e Getty Images, azienda fotografica che dispone di uno dei più vasti archivi di immagini (oltre 80 milioni di fotografie). La piattaforma si era rivolta alla Commissione Europea per vedere riconosciuti i propri diritti d’autore, accusando Google di promuovere la pirateria delle immagini attraverso la propria suite “Google Immagini“.

E dopo due anni di trattative, nel febbraio 2018 i due colossi hanno trovato un accordo: Google avrebbe provveduto ad inserire metatag specifici per la protezione e segnalazione della fonte delle immagini, e in cambio l’azienda avrebbe messo a disposizione il proprio catalogo per la casa di Mountain View. E la parte negativa?

È presto detta: in seguito all’accordo, Google ha rimosso la voce “Visualizza Immagine, rendendo più macchinoso il download di immagini dal web per uso personale. Segnaliamo questo provvedimento tra i fallimenti di Google poiché ne escono danneggiati gli utenti, che non ricevono alcuna forma di compensazione o riparazione, e ne guadagna invece Getty Images, che nonostante i danni subiti in questi anni sicuramente non possiede la totalità delle immagini presenti oggi sul web e raggiungibili mediante una semplice ricerca.

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