Abbiamo già visto nella prima parte di questa raccolta, in tre episodi, della recrudescenza della censura in alcuni stati europei dove addirittura si proporrebbe di bandire le applicazioni dotate di sistemi crittografici a protezione delle conversazioni, mentre nel Medio Oriente la situazione è più che disastrosa e le principali app di messaggistica risultano inaccessibili senza l’uso di una rete VPN.
Spostando l’ago della nostra bussola verso ovest, Africa, Centro e Sud America diventano le nostre zone d’interesse principale e vi lascerà sorpresi scoprire quanti Paesi africani, nonostante la scarsissima connessione Internet disponibile, si affannino a censurare, bloccare ed impedire l’accesso ad app di messaggistica come Telegram o WhatsApp o a servizi VoIP della pari di Viber e Skype. Paura delle contestazioni e di un uso democratico dei social network sono i motivi principali di queste censure.
Siete pronti per un nuovo tour tra i Paesi autoritari?
Africa – Nord-Africa
Partendo dalla costa nord-africana, potrà stupire sapere che Paesi relativamente civili come il Marocco o l’Egitto pratichino una forte censura delle app di chat. Da una parte infatti troviamo il Marocco, uno Stato governato da una forte monarchia che non ha mai temuto le forze destabilizzanti delle primavere arabe, che sembra essere caduto preda delle decisioni delle compagnie telefoniche nazionali (Maroc Telecom, Inwi e Meditel) le quali hanno deciso di comune accordo di bloccare WhatsApp, Tango, Facebook Messenger e Skype sulla base della mancanza di una presunta licenza per servizi VoIP.

Le proteste, scattate già all’inizio dell’anno, hanno portato al biocottaggio dei Maroc Web Awards, sponsorizzati da Inwi, da parte di un largo numero di artisti che avrebbero dovuto parteciparvi, mentre sono numerose le campagne e le petizioni sul web e social network tra cui una lettera firmata da più di 10.000 persone ed indirizzata al direttore del Telecommunications Regulatory National Agency ed al sovrano Mohammed IV. Ciononostante, i servizi VoIP rimangono sotto sequestro.
Anche l’Egitto è finito sotto la nostra lente d’ingrandimento: il Paese nordafricano si è rivelato una dittatura poco incline alla collaborazione, specialmente alla luce di quanto accaduto nella vicenda del caso Regeni; anche nelle relazioni con i social media scopriamo come la giunta militare guidata da Al-Sisi sia particolarmente attiva sul fronte della censura. Negli ultimi mesi del 2015 ebbe molto successo la campagna mediatica #SaveTheInternet con la quale si manifestava contro il blocco dei servizi VoIP da parte della National Telecommunications Regulation Authority (comprensivi di WhatsApp, Messenger, Viber e Skype): a partire dal 2010 (ben prima dell’insediamento di Al-Sisi) in Egitto infatti è vietato utilizzare servizi di comunicazione a lunga distanza, pena la reclusione o multe elevate.
Africa – Centro e Sud Africa
Spostando il baricentro dalla sezione più civile ed industrializzata del continente africano al cuore dell’Africa più nera, la situazione non migliora, anzi: meno lo Stato preso in considerazione possiede un apparato tecnologico sviluppato, più il governo al potere – molto spesso un’élite etnica o una giunta militare – teme un utilizzo sovversivo di app di messaggistica e social network, limitandone il supporto oppure bloccandolo del tutto.

Solitamente le ragioni addotte propongono una lotta più dura e consapevole al cyberterrorismo: in Tanzania si è accesa una forte discussione tra le élite culturali sul Cyber Crime Bill, che limita le libertà civili di terza generazione a favore di una maggiore sicurezza. La sola percezione di insicurezza da parte dei media e delle aziende occidentali causerebbe un esodo in massa di turisti ed investitori mettendo in ginocchio l’economia del Paese.
In altri casi invece si tratta di semplice e puro dispotismo repressivo: lo Stato, sempre tramite la longa manus dei gestori telefonici – nel 90% dei casi considerati sono società statali controllate dal ministero delle comunicazioni, in special modo nei Paesi africani di tradizione socialista – impedisce la diffusione di notizie in occasione di eventi di portata internazionale. È il caso dell’Etiopia, dove il governo dal 2012 ha vietato per legge l’utilizzo di piattaforme VoIP come Skype e WhatsApp: chiunque venga colto in flagranza di reato rischia sino a 15 anni di prigione.
Mentre il governo si è giustificato con il mantra della “lotta al terrorismo“, i dissidenti denunciano il monopolio della compagnia Ethio Telecom che non soltanto provvede a filtrare le connessioni degli utenti, ma ha allestito un sistema che impedisce l’accesso alla Rete tramite Tor. La stessa Ethio Telecom è sospettata di aver interrotto la fornitura di connessione per oltre un mese nella regione di Oromi per coprire il massacro di oltre 230 manifestanti condotto dalle forze di sicurezza governative.
La vicenda assume una sfumatura di assurdo se si confronta il numero di abitanti con l’effettiva percentuale di utenti che usufruiscono della connessione Internet: 700.000 persone su una popolazione di 80 milioni, e la media diventa ancor più ristretta se si prende ad esempio il Burundi. Solo il 2% dei burundesi naviga sul web ma ciononostante tutti i servizi VoIP sono inaccessibili dall’aprile del 2015, principalmente per impedire ai manifestanti della capitale Bujumbura di ottenere una copertura mediatica sufficiente.
Infine, può capitare che le compagnie telefoniche blocchino i servizi VoIP senza il consenso del governo ma anzi, a sua insaputa: in Senegal la compagnia Sonatel ha dovuto cessare il ban di WhatsApp che perdurava da 48 ore in seguito ad un ultimatum del ministero delle comunicazioni locale.
Perchè i governi bloccano le app di messaggistica?
La domanda è più che ragionevole: lascia davvero perplessi osservare la quantità di Stati africani operare a favore di una maggiore censura delle app di messaggistica e dei social network quando la percentuale di utenti è decisamente inferiore rispetto a media tradizionali come la radio o la televisione.

La verità è che i governi africani temono l’immagine del proprio Paese che può trasparire al di fuori dei confini: in Congo le applicazioni svolgono un servizio fondamentale per garantire la libera circolazione delle informazioni, specialmente durante le elezioni, in quanto il primo servizio di media dello Stato africano, la radio, è al 90% in mano ad emittenti private che spesso e volentieri licenziano i giornalisti che si pongono in contrasto con la condotta stabilita dal governo centrale.
Una condotta di questo tipo va contro gli stessi interessi economici del Paese: ogni giorno di black-out informatico in Uganda costa ben 25 milioni di dollari, una cifra che sarebbe insostenibile per una nazione europea, figuriamoci per una africana. Il controllo dei media è considerato però fondamentale e strategico non soltanto per la stabilità politica, ma anche economica – lasciando trasparire un’immagine edulcorata e positiva, gli investitori stranieri saranno maggiormente spinti ad investire e le banche forniranno più volentieri prestiti a lunga scadenza, ritenendo la solvibilità del debitore più affidabile di quanto in realtà non sia.
Perchè dunque il terrorismo prende piede sempre più facilmente in Africa e perchè gli eserciti irregolari che da decenni scorrazzano a destra e a sinistra del continente non sono stati ancora fermati? Con una maggiore copertura mediatica, libero accesso alla Rete da parte degli utenti ed un’implementazione delle infrastrutture tecnologiche i paramilitari – spesso accusati di crimini contro l’umanità e genocidio – perderebbero l’unico vero alleato che ha consentito loro di sopravvivere per tutto questo tempo: l’ombra e la capacità di far perdere le proprie tracce, nel cuore della foresta quanto nel centro di una capitale. Ma fino al momento in cui le élite dei Paesi saranno in mano a politici e capi tribù desiderosi solamente di mantenere il potere e privi di una visione d’insieme, difficilmente vi saranno cambiamenti.
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